Commentando da cronista-storico alla Paolo Mieli i proclami di chi c’aveva promesso di salvare Sarcofago City dalla marcescenza della corruzione “fornaria”, ma poi, come Cicerone, fece strozzare in carcere i rivoluzionari democratici di Catilina per garantire lo status quo della conservazione del potere violando le norme costituzionali della Res Publica delle ciance
Scriveva, Eugenio Montale, Ripenso il tuo sorriso ed è per me un’acqua limpida scorta per avventura tra le petraie d’un greto, esiguo specchio in cui guardi un’ellera e i suoi corimbi; e su tutto l’abbraccio d’un bianco cielo quieto.
Scrivo invece qui, io: Ripenso a Massimo Donati e a quel che scrisse di Coletta e sono parole vuote, piene di fumi e d’incensi: pericolo di un’esca senza senso, che più ci picchia chi più male pensi…
Si può parodiare Eugenio Montale per far scattare le scintille fra l’aulico e il prosaico e rappresentare, in chiave di satira “che non fa ridere” (opinione gratuita di Giuseppe Grieco) nessuno, perché dà solo fastidio dato che racconta solo dei grandi inganni della giustizia che da un millennio è ormai diventata unicamente gioco delle tre carte e spregio nei confronti della Costituzione e del popolo sovrano?
Stavolta faccio come fa il sostituto Curreli quando vuol mandare gente come me agli arresti: copio-incollo ad mentulam canis, citando le parole stesse di Coletta come inni di Davide al Signore e, al tempo stesso, frasi che lo accusano dinanzi a Dio e agli uomini per la loro sostanziale falsità.
Èccone un’antologia. Frasi nobili senza il dovuto corrispettivo di riscontro, che ritrovate tutte sull’articolo del Donati, parola di Tom Col, rendiamo grazie al Signore:
1. Voglio «Una giustizia non del caso celebre, del caso mediatico. Ma una giustizia che risolva i problemi della gente qualunque, che tratti con pari dignità quelli che potrebbero sembrare casi piccoli ma da cui si possono sprigionare grandi tragedie. E anche una giustizia che richieda invece un controllo di legalità forte su altri livelli di mallaffare».Tale e Quale Show della Rai, viene da commentare.
2. Tommaso Coletta, fiorentino, alla guida della procura della Repubblica di Pistoia ha spiegato quella che sarà la linea che intende seguire nel portare avanti il suo delicato lavoro, autodefinendosi, prima ancora che un procuratore della Repubblica, un «procuratore di giustizia». Ma Coletta – o Massimo Donati – intendeva parlare solo per le sue «prossimità sociali» tipo Lucia e Luca Turco, salvo se altri…?
3. «E un procuratore di giustizia – ha spiegato Coletta – deve essere guidato da un paio di criteri ispiratori. Il primo è la condivisione. Per me è fondamentale avere una interlocuzione con i colleghi sostituti, con il personale amministrativo, con la polizia giudiziaria nella conduzione delle indagini e con l’avvocatura, quella istituzionale dell’Ordine e quella associativa della Camera penale». Ora, o gente tutta chiamata in causa, trovatemi, di tutti questi squilli di tromba e rulli di tamburo; di queste soavi tromboviolinate care al presidente dell’OdG Giampaolo Marchini quand’era membro della disciplinare, un solo caso a cui Tom Col abbia voluto dare degno e dovuto compimento a conferma dei propri democratici e costituzionalissimi impegni in linea con la « disciplina ed onore» di cui all’art. 54 della “sorella” di Mattarella, la Costituzione di Roberto Benigni a Sanremo.
4. Cito ancora il Donati che fa parlare Coletta: «Al procuratore si chiede di prendere decisioni, di mettere delle firme, di assumere provvedimenti: guai se ciò farò senza aver sentito prima tutte le voci che hanno diritto di proporre, di interloquire nella trattazione dei singoli affari».E putroppo è stato davvero un guaio, Ser Coletta! Lo spagnolesco, solenne e paludato Pm di Pistoia ha fatto sbizzarrire il suo lancere-scout del Bengala permettendogli di imperversare in lungo e in largo senza uno straccio di indagini, ma solo accozzando, con solare evidenza, un sacco di “bischerate” sempre in forma (confusissima) di capi di imputazione. Anche Curreli, a ben vedere, sembra essere molto più interessato alle sue «prossimità sociali» (Romolo Perrozzi? Andrea Alessandro Nesti? Milva Maria Cappellini? O chiunque gli sia utile per i suoi scopi e le sue idee politico-civili che non per il rispetto della legge. cui per costituzione sarebbe tenuto.
5. Il secondo principio che finora ha guidato il nuovo procuratore di Pistoia – scrive sempre il Donati – è quello delle «indagini a tutto campo»: come accennato, senza distinguere fra i casi eclatanti e i casi cosiddetti minori ma di fondamentale importanza per il comune cittadino. «Devono essere trattati nello stesso modo: è un insegnamento che mi viene da Ubaldo Nannucci».Fa piacere vedere che anche Tom Col ha avuto un maestro. Ma sùbito dopo spiace solo che, molto probabilmente, il Pm non ha fatto come Giotto, che superò Cimabue: s’è fermato appena appena, anche lui, alla crosta. Specie quando livorosamente ha iniziato a perseguitare Linea Libera per l’imbarazzo che poteva suscitargli e che – in nome della verità e delle istituzioni non deviate, come vedete – continua a mettere ben chiaro in evidenza a qualsiasi costo.
6. Tommaso Coletta, attesta Donati, è considerato un magistrato con una grande esperienza nella lotta alla criminalità organizzata. Ha iniziato il suo percorso di pm trent’anni fa a Vibo Valentia, per poi arrivare alla procura di Prato e alla Dda di Firenze. E aggiunge (citazione diretta) «Sono un figlio d’arte. Figlio di un avvocato erariale, nipote di un avvocato del libero foro, sono nato e cresciuto nella cultura del rispetto delle parti, nella cultura della giurisdizione, che è fare, nella trattazione delle singole questioni, sia il pm, sia il giudice, sia l’avvocato. Avere cioè la capacità di comprendere le esigenze, le istanze, le richieste che vengono da un giudice, dalla procura, da un avvocato, farne sintesi e alla fine decidere. Sono stato sempre un pm, ma probabilmente il dna che mi è stato regalato dalla mia famiglia mi ha trasmesso questa cultura della giurisdizione. E intendo applicarla nel lavoro di tutti i giorni».
Lo abbiamo poi visto e provato direttamente sulla nostra pelle. E non solo noi. Qui, perciò, è il caso di recitare le parole che seguono: «Suscipiat Dominus sacrificium de manibus tuis ad laudem, et gloriam nominis sui ad utilitatem quoque nostram, totiusque Ecclesiae suae sanctae»; parole che, tradotte per l’avvocata Elena Giunti che non sa il latino, significano: Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio, a lode e gloria del suo nome, per la nostra utilità e per quella di tutta la sua santa Chiesa.
Il sacrificio da ricevere ad illuminare il Dna di Coletta, è quello rappresentato dalla sofferta deposizione di Daniele Cappelli dinanzi al Csm protettore di Curreli e della di lui moglie Nicoletta Maria Caterina giudice delle esecuzioni (anche capitali e di capitali).
Una testimonianza che, in nome e per conto della Costituzione italiana, continuerò a diffondere per il bene del popolo sovrano sempre preso in giro e sempre vittima di mille colpi di mano!
Edoardo Bianchini [direttore@linealibera.info]
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SIPARIETTO FINALE
Io non sono un figlio d’arte come Tom Col. Non sono figlio di un avvocato erariale, ma di un falegname semplice, che tuttavia non era mio «padre putativo», ma biologico e vero. Era il miglior falegname di Quarrata; orfano di guerra che fece la guerra anche in Sardegna, a Alghero, in aeronautica, a difesa della terra degli shardana.
Non sono nipote di un avvocato del libero foro, ma di un contadino, per parte di padre; e di un boscaiolo, per parte di madre. Un contadino morto per cause di guerra 15-18; un boscaiolo, che perse la mano destra e tre quarti dell’avambraccio (amputazione in periodo di occupazione tedesca) per un’infezione necrotizzante dovuta a una malefica puntura di una spina di acacia: pianta che, probabilmente, nessuno del G8 del Terzo Piano sa cosa sia e la confonde con l’infestante Robinia.
Sono però nato e cresciuto nella cultura del rispetto della gente. E i miei vecchi mi hanno tutti insegnato a rispettare leggi e regole senza offendere l’altro con illeciti tentativi di favorire personaggi d’alto affare come la sorella di un blasonato superiore d’ufficio, nell’ipotesi che tocca Tom Col.
Non sono cresciuto nella cultura della giurisdizione come costui: il quale, nella trattazione delle singole questioni, fa – dice – sia il pm, sia il giudice, sia l’avvocato. Rappresenta, cioè, più parti in commedia, ma infine non è nessuna delle parti che rappresenta.
Io non ho, come il silenzioso (così appellato dall’avvocato Andrea Niccolai), la capacità di comprendere le esigenze, le istanze, le richieste che vengono da un giudice, magari di Cassazione alle Idi De Marzo; dalla procura di un Turco; da un avvocato del foro di Forlipopoli o da una Camera penale che elogia, come quella pistoiese, a prescindere, il rispetto colettiano dell’art. 358 cpp, per farne, come intende il nostro Pm, sintesi; e alla fine decidere scontentando tutti: perché nelle sintesi del tutto, la più parte delle cose genera solo un indistinto miscuglio non di rado pericoloso in quanto necessariamente entròpico.
Io sono sempre stato un funzionario e basta, ma popolano, seppur pienamente capace di leggere, scrivere, fare di conto e capire perfettamente l’italiano (e non solo); e di giungere a intuire, grazie alla critica testuale, quanto si cela sotto l’abbagliante imbiancatura dei sepolcri.
Probabilmente il dna che mi è stato trasmesso dalla mie due famiglie di origine, in linea maschile e in linea femminile, mi ha fatto acquisire questa cultura della verità e dell’onore che, evidentemente, non sembra stare affatto a cuore a Coletta, stando ai parametri dell’art 54 della Costituzione.
Così questa cultura della chiarezza io intendo applicarla, come sempre ho fatto per una vita nel lavoro di tutti i giorni: inderogabilmente. Neppure per la sorella di un Turco, che non è certo mia «prossimità sociale», ma solo di Tom Col e di cavalieri della sua statura morale.
E che Dio ci scampi da chi promette «pane e giustizia» a tòcchi e a fette, come il famoso Ferrer dei Promessi Sposi.
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« La vita è un paradiso di bugie » Brano di Luciana Gonzales
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